Oggi sono quarant'anni dalla strage di Bologna. E vi ripropongo un mio vecchio post pubblicato nel 2014. Conoscerete qualcosa di più di me, del mio passato. Io non posso dimenticare, nessuno può e nessuno deve.
"Sappiate che per me non è facile raccontarvi questa storia.
Soprattutto perché non è una storia." (Mariella Esse)
Era bella la stazione di notte. C'erano delle luci gialle che la illuminavano. E le davano come un aura magica e un po' speciale. Sono tutte belle e un po' misteriose le stazioni in notturna. In quelle grandi con traffico internazionale, vedi lombrichi poco illuminati fermi sui binari, che sono tanti. Vedi i loro numeri e la gente che dorme o che ti osserva, esattamente come stai facendo tu, che sbirci al buio della tua "stanzetta" ciò che accade nella "stanzetta" di fronte.
C'è chi mangia un panino e chi chiacchiera, perché lungo è il tragitto e tanta la strada ferrata ancora da percorrere.
La stazione bianca mi piaceva sempre tanto. Ci passavo in media un paio di volte l'anno. Andata e ritorno da Milano.
Ero sempre contenta all'andata. Assaporavo le vacanze nella mia città preferita. A casa dello zio.
Premio che arrivava alla fine di ogni stagione scolastica.
Lo aspettavo tutto l'anno. Con frenesia. Stretta com'ero tra le mura antiche e pur bellissime della città di provincia che mi aveva dato in natali. Che amavo ma che non comprendevo.
Consapevole che ci fosse altro. Ad di là di quelle montagne. E di quelle "FORCHE" che avevano piegato i romani.
E l'altro per me era Milano.
L'estate calda e afosa della città mi accoglieva, con tutta la sua altezzosità.
Le strade lunghe e larghe, le guglie del suo duomo. gli alberi dei suoi parchi. Ma anche borghi quasi nascosti alla cui fine c'era l'università, che un giorno mi avrebbe accolto e sopportato, tra le aule vecchie e il porticato del suo giardino. Ricca di opportunità che mai sono state negate ad alcuno. Almeno allora.
Quando tornavo ero sempre triste. Mi sembrava che fosse sempre troppo lungo il tempo da trascorrere prima del mio ritorno.
E i giorni precedenti erano volati. Mi aspettavano il mare e le vacanze. Un mese intero in cui sarei stata con tanti amici con i quali mi rivedevo ogni anno, sulla spiaggia bianca di quel paesino abruzzese che adoravo.
Eppure, quella notte le luci gialle mi immalinconivano. Niente di particolare. Sembrava che tutto fosse sospeso, come quando aspetti qualcosa che non conosci ancora, ma che sai, arriverà.
E poi io di notte non dormivo mai.
Una paura atavica, che mi aveva trasmesso il mio papà ferroviere. "Sempre un occhio aperto di notte, bambina mia."
Il primo stop era Foggia. Ma non terminava lì il mio viaggio. Mio zio mi accompagnava fino al treno che mi avrebbe riportato a casa. Un abbraccio e il silenzio carico di parole di affetto tra due che si considerano un'altra figlia e un altro padre.
L'arrivo a casa, intorno alle 12,00 del mattino. Mio padre che mi corre incontro e mi abbraccia. Talmente forte che meraviglia me per prima. Lo prendo in giro dicendo "ehi ma son tornata non sto partendo per L'America". Lui che mi accarezza e piange.
Io che lo abbraccio forte ma che non capisco.
E poi a casa. Le immagini dal televisore. Il fumo, le barelle, i teli bianchi sui corpi. I nomi. Non vedo più le luci gialle e la stazione bianca. Vedo solo il dolore, la rabbia. I visi di chi cerca disperatamente qualcuno o qualcosa di quel qualcuno. Le autoambulanze. Un autobus rosso che accoglie i feriti.
Le domande. I dubbi.
Oggi, dopo oltre trent'anni, non hanno ancora trovato risposta.